Nel 1843, il non ancora trentenne Francesco Minà Palumbo, diede alle stampe una lettera indirizzata all’amico Pietro Calcara, su un argomento di storia naturale, dal titolo quantomeno curioso, Su di un fagiolo petrificato rinvenuto nelle Madonie. Si tratta di brevi considerazioni che l’autore invia all’amico, professore di storia naturale all’università, «perché siete in istato di meglio giudicarne».

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La lettera a Calcara è di una certa importanza perché la chiusa anticipa il programma di ricerca che Minà andava elaborando da qualche anno, almeno dal 1834, e che sarebbe stato divulgato nel 1844 con la pubblicazione della Introduzione alla storia naturale delle Madonie. Scrive Minà: «Le Madonie, il ripeto sempre, sono state poco studiate, e meritano tutta l’attenzione, e reiterate escursioni; e se l’ignivomo Etna ora che è stato percorso in tutti i luoghi ha offerto un numero maggiore di prodotti, le Madonie se fossero ugualmente visitate offrirebbero grandi materiali, onde compilare la storia naturale della nostra isola».

Motivo della lettera è un masso di psammite prelevato dal ruscello che scorre alle falde dei Monticelli, nel versante orientale delle Madonie. Mentre gli operai lo spaccavano per ricavarne conci da utilizzare nella riparazione di un ponticello, schizzò un piccolo corpo la cui forma bizzarra di un fagiolo non sfuggì all’occhio dei presenti, fra i quali vi era il naturalista dilettante Antonio Guerrieri, che lo raccolse al volo. Provò a schiacciarlo stringendolo fra i denti, senza riuscirvi. Avendolo reputato di un certo interesse, pensò di sottoporlo a Minà Palumbo onde ricavarne qualche ulteriore notizia.

L’articolo di Minà è impostato sulla minuziosa analisi descrittiva del misterioso corpo e sulla conclusione, non scevra di dubbi, che possa trattarsi di un fagiolo fossile.

Dopo averne determinato le dimensioni e la massa, Minà precisa che il corpo è «duro da non poter essere intaccato dal coltello, levigato e lucido [...], di color blu con una leggiera sfumatura rossastra [...] a destra è un poco verdastro in vicinanza del germe». E conclude: «Dalla forma e dai colori del corpo sopra descritto, dalla forma e luogo del germe, dalla levigatezza della superficie si può dedurre che questo corpo è un fagiolo petrificato. [...] Dalla descrizione fatta e dalle su espressate riflessioni risulta che non può confondersi con nessun altro corpo. Non è un pisolito, perché manca la forma sferica, [...] non è una cochiolite, perché non ne ha la forma, [...] potrebbe credersi un oolite per la compattezza, pur la sua figura e il colore ci tolgono il dubbio: [...] potrebbe essere un fagiolo petrificato».

Minà, in realtà, è assalito da più di un dubbio, come ad es.: «La fossilizzazione del fagiolo ebbe luogo certamente nel tempo della formazione della roccia; quindi avvenne in remotissimi tempi, quando la Sicilia era disabitata, perciò come poteva trovarsi in queste contrade essendo per sua natura esotico?».

Carlo Gemmellaro, geologo e naturalista di comprovata fama, leggendo quell’articoletto sobbalzò «al solo annunzio che se ne dava nel frontespizio» e affidò le sue controdeduzioni piene di scherno a una noticina apparsa sul giornale Scilla e Cariddi.

Il tono non benevolo promana fin dalle prime battute allorché, in maniera pretestuosa, vi afferma che dall’articolo di Minà non si deduce la località di rinvenimento del cosiddetto fagiolo mentre l’indicazione della roccia che lo conteneva esclude che il suolo potesse essere «di torpa, o di altra recente formazione, ma bensì una psammite», il tutto rinforzato da un sarcastico «per quanto se ne assicura in quelle pagine».

Il guscio psammitico che avvolgeva il corpo rinvenuto, continua Gemmellaro, avrebbe già dovuto diradare ogni dubbio circa il fatto che il frutto di una leguminosa potesse essere rinvenuto all’interno di una roccia marina di antica formazione, qual è quella delle Madonie.

Le dicotiledoni, infatti, si trovano, solo a partire dai terreni terziari, mentre «la psammite delle Madonie, se è tale, è formazione marina, e coeva forse all’epoca del periodo secondario di tutta la catena di quelle montagne». In altri termini, non è possibile che la roccia delle Madonie possa contenere resti di piante dicotiledoni, anche se si dimostrasse che quella psammite in realtà è una arenaria del terziario.

Ciò implicherebbe, incalza Gemmellaro, la pietrificazione di un frutto leguminoso che costituirebbe un evento a dir poco straordinario dato che «un seme farinaceo, così facile a disfarsi e sciogliersi in un liquido gelatinoso, [...] potesse resister poi al lento e diuturno processo della compenetrazione del fluido lapidifico!». D’altra parte anche nelle formazioni stesse del carbone, nelle ligniti, quando si rinviene qualche seme pietrificato esso appartiene a frutti dai gusci duri quali quelli di noci, pini e altri simili frutti legnosi. «Ma nelle piante erbacee di fibre molli e tenere, e de’ loro frutti ancor più molli e di delicato parenchima, non possono rimaner tracce determinabili, e forse né anche visibili». Tanto è vero che delle piante erbacee fossili rinvenute, conclude lo studioso catanese, quasi tutte equisetacee, felci, cicadee e simili, non si è mai trovata alcuna leguminosa.

Il presunto fagiolo fossile, la cui forma strana determinò questo clamoroso quanto veniale scivolone del giovane Minà, in ordine alla sua estrema durezza, potrebbe essere – suggerisce Gemmellaro – un sassolino di selce. Ma potrebbe fare pensare anche a un dente di mascella o di palato di pesci fossili, facilmente verificabile per raffronto con le tavole paleontologiche di lavori sull’argomento.

Non sappiamo come il povero Minà reagì alla lezione del supponente Gemmellaro, ma la qualità degli oltre mille lavori che seguirono al «fagiolo petrificato» è senza dubbio sintomatica di una acquisita e solida metodologia di indagine scientifica che mai venne meno nel corso della sua lunghissima ttività, sia che pubblicasse una noticina sui dati meteorologici di Castelbuono, sia che desse alle stampe il trattato sulla coltivazione del pistacchio o sui lepidotteri diurni delle Madonie.